domenica 14 gennaio 2024

Un brano inedito di Cochi e Renato?

giovanissimi al Cab 64 - ©Uliano Lucas 

Mentre leggo La versione di Cochi, scritto da Ponzoni con Paolo Crespi, mi soffermo su un ricordo dei tempi del Cab 64, il primo locale milanese che accolse professionalmente gli allora giovanissimi Cochi e Renato, e sul ruolo del paroliere Giorgio Calabrese come collaboratore del gruppo di artisti che si unì a questa fase sperimentale del cabaret a Milano (assieme a Bruno Lauzi, Felice Andreasi, Lino Toffolo). A quell’epoca – siamo nel 1964 - Calabrese, autore di canzoni per artisti del calibro di Mina, Ornella Vanoni, Adriano Celentano, Luigi Tenco, aveva scritto una canzone per Cochi e Renato dal titolo La cosa, e nel 1975 collaborerà di nuovo con loro per due brani inseriti nel film Il padrone e l’operaio, regia di Steno, cantati da Cochi e Renato, e musicati da Gianni Ferrio, La ventosa e La fortuna ha le mutande rosa. Stando a quanto letto nella sua autobiografia, Cochi afferma che Calabrese aveva scritto apposta per loro un’altra canzone intitolata In due, con musiche dello stesso Ponzoni. Nel deposito della SIAE, questa canzone effettivamente c’è, ma la musica è attribuita a Jacqueline Perrotin, pianista francese che lavorava con il gruppo al Cab, e all’epoca moglie di Ciro Tortorella. Quando scrissi la discografia per il libro che ho realizzato con Sandro Paté – Cochi e Renato, la biografia intelligente (Sagoma, 2019) – pensavo di aver raccolto tutto quello che avevano cantato in coppia, consapevole però agli inizi della loro esperienza in cabaret potesse esserci qualche ballata milanese che si smarrì in quelle occasioni. Mai pensavo però di leggere di un brano scritto proprio per loro, e non di saperne niente. Succede! Essendo una canzone inedita, mai registrata o recuperata negli anni successivi, ho scritto alla Siae, sai non si sa mai…

martedì 2 gennaio 2024

Quando il Belpaese voleva Stanlio e Ollio gladiatori

Quello che sto per raccontare parte da una curiosità principale che a quanto pare sul web non è riportata da nessuna parte: questo perché la fonte è un libro di interviste che conoscono gli studiosi di cinema, ed è da lì che sono partito, come si faceva una volta nelle biblioteche e negli archivi, in tempi non troppo lontani ma che sembrano giurassici. E dedico questo articolo alla memoria di Ernesto G. Laura, caposcuola di una generazione di storici del cinema che ebbe l’occasione di raccontare, fra le varie cose, la storia di Stanlio e Ollio.


La curiosità parte da un titolo dell’Hollywood Reporter del dicembre del 1939 che annunciava il prossimo progetto della coppia Laurel e Hardy nei panni di due gladiatori nell’Antica Roma. La notizia vedeva ottimisticamente il futuro di Stan e Ollie ancora sotto contratto con Hal Roach per la United Artists, e invece, mentre stavano girando Saps at Sea (C’era una volta un piccolo naviglio, uscito nel 1940), decisero di chiudere per sempre con il produttore cercando strade migliori. Al di là di questo progetto di cui non sappiamo nulla, neanche l’esistenza di un soggetto, possiamo affermare che quello che fu proposto loro – anche idealmente – anni dopo in Italia è una coincidenza veramente incredibile. Perché si trattava proprio di una storia con loro due come gladiatori alle prese con Nerone. Per spiegarlo dobbiamo fare una premessa storica tornando all’Italia del dopoguerra.


All’epoca il nostro paese era invaso dai comici, vecchi e nuovi. Totò, dopo una falsa partenza alla fine degli anni Trenta, cominciò a girare film di successo ed esplose come il comico del momento. La vecchia guardia, capitanata da Macario, Aldo Fabrizi, Nino Taranto, proveniva dal varietà come Totò e seguiva l’onda del successo di quest’ultimo, mentre la giovane generazione, chi dal teatro, chi dall’avanspettacolo o dalla radio, fu “rapita” dai produttori per inserirli in film comici veloci da girare dalla qualità altalenante: prima del successo di Alberto Sordi, per citarne uno che negli anni Cinquanta divenne il re del box office, erano già subentrati Ugo Tognazzi, Walter Chiari, Riccardo Billi e Mario Riva, Carlo Croccolo, Carlo Campanini, Raimondo Vianello e così via. Per dirla in maniera spicciola: tutti lavoravano e mangiavano, e per continuare a farlo bisognava avere sempre idee nuove, a costo di raschiare il barile. E poiché lo sblocco delle pellicole americane ferme durante la Guerra scatenò un incredibile assalto di comici senza precedenti – da Laurel e Hardy ad Abbott e Costello, i fratelli Marx, Bob Hope, Danny Kaye – i produttori italiani sentivano nell’aria la possibilità di una co-produzione. E guarda caso, in quel periodo Stanlio e Ollio erano tornati alla popolarità esibendosi nei teatri inglesi alla fine degli anni Quaranta, rendendosi accessibili alla vecchia Italia, dove la coppia era ancora popolarissima. Già alla fine del 1946 si pensò di inserirli in un contesto simile a quello del loro grande successo Fra Diavolo (1933), con loro due umili servitori pasticcioni e dal cuore d’oro, per una parodia de Le due orfanelle, il testo del 1874 di Adolphe d’Ennery ed Eugène Cormon, già alla base dell’omonimo film di David W. Griffith del 1921, e di una versione di Carmine Gallone del ’42. I due orfanelli, proposto da Mario Mattoli al giovane sceneggiatore Age, voleva sfruttare le scenografie di un film precedente di Mattoli, Il fiacre n.1, ed inserire Stanlio e Ollio, ma, come ha raccontato Age, i due comici al momento di concludere l’affare non erano disponibili, e così si ripiegò su Totò e Carlo Campanini. 


L’anno in questione, il 1947, era stato fittissimo nelle agende dei due comici americani: sbarcati a febbraio, rimasero nei teatri europei fino al gennaio dell’anno successivo. Pur prossimi ai sessant’anni d’età, erano ancora molto famosi: quando tornarono in America, scoprirono che i loro film vecchi degli anni Trenta trasmessi nella neonata televisione, avevano riscosso un grosso successo e avviato una nuova generazione di fan. La cosa non passò inosservata, e un finanziatore americano di nome George Bookbinder decise di sfruttare i suoi contatti con un produttore, tale Deutchmeister, che era affiliato all’Universalia, a capo Salvo D’Angelo, di Roma, per mettere in cantiere un film girato in Europa con Laurel e Hardy. L’idea principale era fare un film con Stanlio e Ollio e affiancarli ad altre star comiche: e nella fretta di pubblicizzare un film che praticamente non aveva ancora una sceneggiatura, nella primavera del 1950 i comunicati stampa spararono grossi nomi come quello di Totò e di Fernandel. Il sentore che si trattasse di una produzione confusionaria cominciò a farsi sentire proprio da queste mosse pubblicitarie: mentre Stan Laurel sbarcò a Parigi a maggio, seguito da Hardy a giugno, i nomi continuarono a cambiare, senza freni: spariti Totò e Fernandel, si stamparono i nomi di Carlo Croccolo, Walter Chiari, persino Macario, nessuno che farà parte del cast di quel film disgraziato che fu Atollo K


Saltiamo direttamente la faticosa lavorazione e le complicazioni di salute che ebbero i due attori americani, per andare – dopo questa premessa – ad un altro film che inizialmente era stato persino scritto per loro, una parodia sull’Antica Roma dal titolo O.K. Nerone. Il film è del 1951, e pur diretto da Mario Mattoli e con una squadra di sceneggiatori incredibile (Monicelli, Steno, Alessandro Continenza, Age e Scarpelli), non è quello che possiamo considerare una commedia riuscita, nonostante Walter Chiari e Carlo Campanini protagonisti, e con Gino Cervi e Silvana Pampanini di contorno: la storia ruota attorno a due marinai italo-americani in visita a Roma che vengono aggrediti da dei teppisti, e dalle botte ricevute sognano di essere nella Roma di Nerone. Le situazioni comiche partono soprattutto da qui, con questi due scemotti che parlano proprio come Stanlio e Ollio (anche se a volte l’accento sparisce nel nulla…) e insegnano a Nerone a giocare a biliardo e a rugby. Quando si risvegliano davanti al Colosseo, scoprono che il loro superiore è un ufficiale che ha il volto di Nerone, sempre interpretato da Cervi. Non era una trama irresistibile, e ricorrendo alle grazie della giovane e bella Pampanini nel ruolo di Poppea, il film ebbe grossi problemi con la censura in fase di revisione, che ordinò dieci tagli di cosce nude per dare il nulla Osta, per poi accordarsi a “soli” cinque. O.K. Nerone uscì nelle sale nel Natale del 1951, quasi in contemporanea con il film Atollo K con Stanlio e Ollio, incassando anche bene (418 milioni di lire d’incasso, nell’anno di Guardie e ladri con Totò e Fabrizi). Lo sceneggiatore Alessandro Continenza – ed ecco la fonte che ho citato prima - rivela che l’idea di averli in Francia e rinfrescato la possibilità di girare un film con loro, era naufragata per l’avanzata età dei due attori: “Una volta avevamo scritto un film con Steno, Monicelli, Age e Scarpelli che si chiamava O.K. Nerone, che doveva dirigere Soldati e poi diresse Mattoli. Il film era stato scritto per la Diana cinematografica, che lo voleva con Stan Laurel e Oliver Hardy, era la storia di due americani che si trovavano improvvisamente nell’antica Roma. Un film facile, qua e là scopiazzato: avevamo scritto ‘sta roba cercando di ricordarci le gag di Laurel e Hardy, per fare un film ‘alla maniera di’. Senonché, quando arrivarono, ‘sti americani erano due vecchi cadenti, e in Italia fecero un solo film, che si chiamava Atollo K e che fu un disastro. Così i produttori sostituirono a Stanlio e Ollio...Carlo Campanini e Walter Chiari! Il film andò abbastanza bene, però era un filmaccio!”. Col senno di poi, effettivamente i ruoli richiedevano un certo impegno fisico che Stan e Oliver, bontà loro, non erano più in grado di sostenere. Siete curiosi di vedere il film? Eccolo qui:


 

da "Ciak", 1994 (archivio B. Gemma)
Curioso, però, che due attori come Chiari e Campanini avessero sfiorato un progetto pensato per la coppia, perché in precedenza c’erano stati diversi punti di contatto. Walter Chiari, come si è detto, era talmente vicino ad interpretare Atollo K con Stan e Oliver da essere presente quando i due arrivarono a Roma, accolti da una enorme folla festante, nel giugno del 1950. L’impressione che ebbe dei due comici, racconterà anni dopo, non fu molto entusiasmante: “Avevano una paura maledetta, inesorcizzabile, dell’aereo. Arrivarono a Roma con un treno, perché non avevano mai viaggiato [in aereo]. Avrebbero potuto diventare miliardari, anche da vecchi, girando il mondo, facendo gli sketch, facendosi vedere. Li ho visti tristi, perché sono scesi, in un attimo la gente aveva stabilito che non servivano. Dio come sentono gli attori quando c’è la fine. Sono degli psicologici infallibili. Una cosa che posso dire è che mi ha fatto ridere, e non è crudele, le voci. Stanlio parlava con la voce di Ollio, e Ollio con la voce di Stanlio!”. Il rapporto con Campanini era meno diretto, ma molto interessante da ricordare: nella metà degli anni Trenta, agli inizi della sua carriera di attor giovane, si mise in coppia Carlo Dapporto per proporre uno sketch in cui facevano Stanlio e Ollio, idea che ebbe un certo successo presso il pubblico dell’avanspettacolo. L’imitazione, davvero ben fatta, è oggi visibile grazie alle riproposte che ne fecero in televisione negli anni Cinquanta.



Meno noto è il ruolo del doppiaggio: Campanini doppiò Stanlio e Ollio in una sola occasione, e non ufficialmente, nel ruolo di un doppiatore alle prese con il film I diavoli volanti (1939), per In due si soffre meglio (1943) diretto da Nunzio Malasomma. La scena è molto interessante, e in parte è una testimonianza dei doppiaggi dell’epoca (il film in origine era stato doppiato da Alberto Sordi e Mauro Zambuto due anni prima, nel ’41), riportata qui sotto.





Dapporto, invece, avrà modo di incontrare Laurel e Hardy a Milano durante il tour promozionale per Atollo K, nel 1950: ed è un peccato che quella occasione, registrata alla radio, sia andata smarrita. Sopravvivono però alcune foto e una preziosa testimonianza di Emilio Pozzi (a destra nella foto), giornalista presente a quel momento, che nel 1985 racconterà al Radiocorriere Tv: “Come radiocronista fui mandato al loro arrivo alla Stazione Centrale di Milano per intervistarli appena scesi dal treno. I mezzi tecnici allora non erano sofisticati, i collegamenti erano riservati a dirette importanti e si registrava su dischi e, d’altra parte, poiché l’arrivo era previsto per mezzogiorno, volevano andare in onda con il Gazzettino padano alle 12,40. Non sapevo l’inglese e non volevo rinunciare al servizio. Imparai alcune frasi, le recitai: i due risposero, io tradussi, a senso, indovinando le risposte. Il pomeriggio, poi, mi presentai alla conferenza stampa per un'altra intervista più ampia e destinata a Voci dal Mondo il settimanale radiofonico diretto da Vittorio Veltroni, in compagnia di un'interprete e di Carlo Dapporto che avrebbe dato la voce per la versione italiana, come al cinema. Stanlio mi guardò perplesso e mi domandò “Perché non parli? Da stamane hai dimenticato l'inglese?”. Feci spiegare che d’inglese conoscevo solo le quattro frasi usate la mattina. Scoppiarono a ridere di cuore. Presuntuosamente potrei ricordare quell’episodio come la volta che feci ridere Stanlio e Ollio”.

Il contatto con l’Italia non si concluse lì: nella corrispondenza privata di Stan, si legge che il loro agente aveva ricevuto una offerta per farli recitare nei varietà italiani – per uno spazio di uno sketch, che di una rivista intera – fra il ’51 e il 1952, ma come lo stesso Laurel immaginava, erano parole campate in aria che non ebbero seguito. La stanchezza fisica cominciò a farsi sentire, e dopo qualche anno i due decisero di ritirarsi, non avendo più l’età neanche per fare i gladiatori per i produttori del Belpaese.


(la fonte della dichiarazione di Continenza è L'avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli, 1979).

domenica 15 ottobre 2023

Sherlock Holmes all’italiana

Dopo le parodie di Sherlock Holmes nel cinema muto italiano, l’argomento di oggi è l’unica versione italiana mai realizzata: e bisogna tornare indietro al 1968 per raccontare l’’unico Holmes made in Italy interpretato dal grande attore Nando Gazzolo. All’epoca le fiction si chiamavano sceneggiati ed erano trasposizioni televisive di opere teatrali o letterarie: avevano tempi televisivi che oggi potremmo considerare mortali, ma con un’alta eleganza nella confezione e una scelta di prim’ordine nel cast che, sottolineo, proveniva dal teatro classico. Era una Rai opposta a quella di oggi: gli sceneggiati fungevano da servizio pubblico per far arrivare al pubblico italiano dell’epoca storie, personaggi e paesaggi che a scuola avevano finto di apprendere. Basta fare un salto su Raiplay e godersi quella meraviglia degli anni ’60, per rendersene conto: Sherlock Holmes, andato in onda in sei puntate nel 1968, presente sulla piattaforma, non è da meno. Diretto dallo specialista Guglielmo Morandi, lo sceneggiato presentava due romanzi scritti da Arthur Conan Doyle, La valle della paura e Il mastino di Baskerville, rispettivamente ultimo e terzultimo della saga di Holmes, adattati da Edoardo Anton, sceneggiatore di grande esperienza (lavorò con Risi, Comencini, Bolognini, Blasetti). Questa produzione fu realizzata per rilanciare gli scritti di Conan Doyle in Italia, in quel periodo poco considerati nel nostro paese; la scelta di Gazzolo e Gianni Bonagura come Holmes e Watson non fu casuale, perché nel doppiaggio avevano prestato la loro voce in questi ruoli in due film: Gazzolo aveva doppiato Peter Cushing nel film La furia di Baskerville (1959), all’epoca una delle ultime versioni cinematografiche arrivate in Italia, mentre Gianni Bonagura, grandissimo, doppiò Donald Houston in A Study in Terror (Sherlock Holmes: notti di terrore, 1965). È opinione di molti esperti che Bonagura è stato uno dei migliori Watson di sempre: ironico, scaltro, rispettoso del suo amico più intelligente. Non da meno Gazzolo-Sherlock, più fisicamente possente rispetto ai precedenti, ma perfettamente calato nel ruolo: circondati da ottimi attori, il duo è piacevole, e la curiosità di vedere due italiani in questi panni inglesissimi suscitò interesse da parte della stampa italiana e da quella locale che seguì le riprese che si svolsero nell’estate del ’68 fra l’Inghilterra (per gli esterni), e e Napoli per gli interni. Il pubblico apprezzò l’operazione (l’indice di gradimento fu di 78-80: non essendoci ancora l’auditel, il sistema di ascolto si basava su delle telefonate random presso gli abbonati, e la cifra si intendeva come percentuale di apprezzamento), la critica meno: colpevole, a leggere le recensioni, un ritmo più lento del solito, e una prolissità nel racconto. Dividere due romanzi in sei puntate in effetti era un po’ troppo, almeno con quella lentezza che ancora oggi pesa sulla visione, ma il bianco e nero trasmette, soprattutto per Il mastino di Baskerville, un’atmosfera cupa, quasi gotica. Si trattò di una versione italiana unica, che nessuno ha avuto più coraggio – e fortunatamente, vista la qualità di oggi – di replicare.

E in radio? Qui, come direbbe Totò, casca l’asino: perché il primo Sherlock Holmes italiano fu radiofonico, e cioè il mitico Ubaldo Lay (il futuro tenente Sheridan televisivo): I gialli di Sherlock Holmes andò in onda sul Programma Nazionale (futura Radio Rai1) dal 2 luglio 1958 per dodici appuntamenti adattati da Marco Visconti, con Lay-Holmes e Renato Cominetti-Watson: nel cast di un paio di puntate, figurava proprio Gianni Bonagura. 


All’epoca della realizzazione di questo Sherlock Holmes, la televisione americana e britannica aveva già prodotto le sue versioni: nel 1954, toccò all’americano Ronald Howard, nel 1965 all’inglese Douglas Wilmer per una famosa serie della BBC, poi sostituito da Peter Cushing nel ’68; prima di Gazzolo, solo un altro attore non anglosassone era “stato” Sherlock, Erich Schellow, per la televisione tedesca, nel 1967: e proprio tedesco fu il primo “straniero” anche nel cinema, negli anni Dieci. 

Inoltre, l’Italia fu co-produttrice del film Sherlock Holmes und das Halsband des Todes (Sherlock Holmes – la valle del terrore, 1962), con Christopher Lee nel ruolo principale, considerato uno dei “peggiori” Holmes della storia.

 

Trame & credit

 

Per questo sceneggiato vengono scelti due romanzi che vedono Holmes e Watson fuori da Londra e dal loro quartier generale a Baker Street: ne La valle della paura, pubblicato nel 1915, sono chiamati dall’ispettore MacDonald a indagare sulla morte di John Douglas, americano trapiantatosi in Inghilterra e proprietario di un piccolo castello nella campagna inglese. Holmes risolverà il mistero della piccola truffa messa in piedi dal defunto (il cadavere è quello del suo assassino, che covava vendetta contro di lui da molti anni da parte di una società massonica chiamata I vendicatori), dalla moglie Ivy Douglas e del loro ospite Cecil Baker, amico di vecchia data di Douglas. Con Leonardo Severini (Ames), Cesarina Gheraldi (Mrs. Allen), Anna Miserocchi (Ivy Douglas), Mario Erpichini (Cecil Baker), Francesco Paolo D'Amato (Jack McDonald), Antonietta Lambroni (Mrs. Clarke), Francesco Sormano (Ispettore McDonald), Enrico Ostermann (Ispettore Mason), Giuseppe Mancini (Jackson), Mario Laurentino (Sergente Wood), Ernesto Colli (Turner), Francesco Vairano (usciere), Michele Borelli (Groom), Andrea Bosic (John Douglas/ John McMurdo), Nino Pavese (McGinty).

L’ultimo dei Baskerville, pubblicato nel 1902, è una delle storie più famose di Conan Doyle, qui raccontata con alcune differenze soprattutto nell’antefatto, ma la sostanza rimane la stessa: a seguito della morte misteriosa di sir Charles Baskerville, il nipote Henry diventa unico erede delle sue ricchezze e arriva nella tenuta di Baskerville dall’America per prenderne possesso. Holmes e Watson, giunti sul posto dopo aver ricevuto l’invito di sir Charles, iniziano le indagini scoprendo che la vicenda coinvolge una leggenda di famiglia vecchia di secoli e un fantomatico cane demoniaco. Fingendo di lasciare il solo Watson in aiuto dell'erede Henry Baskerville, nipote della vittima, Holmes continua l'indagine individuando il colpevole in John Stapleton, un vicino in realtà discendente dei Baskerville che, conoscendo la malattia di cuore di sir Charles, gli ha scatenato contro un vero grosso cane provocandone la morte per attacco cardiaco e attuando poi lo stesso piano contro il nipote allo scopo di diventare l'erede della proprietà. Salvato sir Henry per un soffio, Holmes e Watson inseguono Stapleton ma l'assassino commette l'errore fatale di entrare nella palude della brughiera in piena notte non emergendone più. Con Franco Volpi (Maggiore Frankland), Paolo Carlini (Sir Henry Baskerville), Antonio Salines (John Barrymore), Adolfo Geri (Dottor Mortimer), Anna Maria Ackermann (Elisa Barrymore), Marina Malfatti (Beryl), Sergio Reggi (Sergente Reynolds), Franco Scandurra (John Stapleton), Michele Mattera (Richard), Marco Pasquini (soldato), Attilio Fernandez (Perkins).

 

Le reazioni

 

Lo sceneggiato andò in onda dal 25 ottobre al 29 novembre 1968 sul Secondo Canale, alle 21:15. Avrebbe dovuto debuttare l’11 ottobre ma all’ultimo momento un cavillo contrattuale con gli eredi di Conan Doyle bloccò la messa in onda, slittando così al 25. All’epoca il giallo era un genere molto seguito dagli spettatori italiani – andavano forte il tenente Sheridan con Ubaldo Lay, Le inchieste del commissario Maigret con Gino Cervi, e da lì a poco avrebbe debuttato Nero Wolfe, con Tino Buazzelli – ma questo Holmes non entrò esattamente nel cuore del pubblico. Una lettera di uno spettatore, ad esempio, lamentava: “l’eccessiva lentezza, la suspense diluita in disutilissime lungaggini, i melensi complimenti reciproci fra Holmes-Gazzolo e Watson-Bonagura, tutto l'episodio conclusivo è stato guastato dalla recitazione nevrotica, quasi isterica dell'attore che impersonava l'ispettore di polizia”. Le altre sono su questo tenore, e i quotidiani non furono teneri. La Stampa del 9 novembre 1968, annota su La valle della paura: “è una storia lenta, diluita, che al lettore di oggi risulta quasi insopportabile. Comunque, con tutti i suoi gravi difetti, era un impianto nient’affatto disprezzabile, con un meccanismo che, depurato dai florilegi di un vecchio stile di sapore decadente e da divagazioni e disquisizioni inutili, si rivela piuttosto ben congegnato”; dopo averso visto Il mastino di Baskerville, il recensore finalmente rimane soddisfatto e il 16 novembre scrive: “L'avvio è stato impeccabile, come giallo (…) Bisogna dire che questa sequenza era molto ben realizzata, con un senso abile di suspense che ne «La valle della paura» avevamo atteso invano per tre puntate. Ma anche dopo, salvo un paio di brevi cadute qua e là, il ritmo s'è mantenuto soddisfacente. Il dialogo a tre (Carlini, Gazzolo e Bonagura) è andato in crescendo e il finale del capitolo con l'ululato agghiacciante dell'ignoto mostro, e col servo sorpreso a fare segnali, e Sherlock Holmes che insegue un individuo nella landa e che per poco non ci rimette la pelle, infilzato da un pugnale, era teso e condotto col gusto del classico racconto del terrore. (…) Nando Gazzolo ci è sembrato meno professorale e Gianni Bonagura meno stupefatto”. Le critiche dell’epoca hanno comunque fatto il suo tempo, al di là del contesto storico degli sceneggiati Rai che non brillavano per ritmo ma ricambiavano in grandezza d’attori e confezione, e oggi lo Sherlock Holmes di Gazzolo è fra i più ricordati negli attori non anglosassoni che si sono cimentati in questo non facile ruolo. 

 

Dietro le quinte

 

Edoardo Anton si approcciò al copione con il cruccio fondamentale di quale taglio dargli. “L’ostacolo maggiore ad una trasposizione di Sherlock Holmes per la televisione italiana era rappresentato dall'elemento più valido dell’epoca di Conan Doyle: il suo personaggio principale; che, proprio perché era assai tipico e controcorrente per la sua epoca, oggi ci è terribilmente lontano. Oggi l'ideale di Uomo per il Mito è esattamente l'opposto di Sherlock Holmes: è James Bond. E per contro l'ideale, non da mitizzare, ma per riconoscervisi, è il famigliare Maigret: grosso, comune, simile ai mille uomini della strada, tutto birra, salsicce e domenica alla osteria fuori porta con la «sua Signora». In quale modo la gente di oggi potrebbe accettare un tipo quale Sherlock Holmes, inventato da un baronetto dell'Ottocento inglese, che gli presta senza volerlo le deformazioni e i pregiudizi della sua casta? Holmes agli occhi del nostro lettore moderno appare decadente o «dannunziano», molto presuntuoso e un po' ridicolo, semplicistico, monotono nei metodi, molto fumo intellettuale e poco arrosto poliziesco, con una fortunaccia indecente nel trovare sempre, al momento giusto, la zacchera di mota conosciuta o il mozzicone di sigaro speciale o il tatuaggio rivelatore. E sopra tutto non gli sarà perdonato il suo non giustificato isolamento sentimentale, il suo disprezzo per le donne: all'occhio di oggi, un uomo simile è antipatico o sospetto. Comunque, in entrambi i casi, un eroe da rifiutare. D'altra parte, la straordinaria fama del Personaggio, l'epoca e il luogo (quella, anche letterariamente, favolosa Londra fine ‘800) sono indubbiamente elementi di fascino spettacolare che non vanno sottovalutati o buttati via alla leggera. Per tali contrastanti ragioni, accingendomi alla trasposizione televisiva di Sherlock Holmes, pensai sulle prime che la miglior soluzione fosse quella di insistere sui difetti del personaggio, rilevandoli satiricamente anziché nasconderli e smussarli, e presentare al pubblico un Holmes in chiave leggiadramente farsesca”. 

Fortunatamente Anton cambiò totalmente idea dopo aver visto (o saputo, poiché si cita una serie televisiva inedita in Italia) il telefilm della BBC del ’65 interpretato prima da Douglas Wilmer nel ruolo principale, e poi 

Da Peter Cushing. “Questa nuova linea della BBC mi convinse”, scrisse Anton. “Modificando la mia prima decisione, anch'io dunque avrei insistito sul clima alla Poe ogni volta che se ne offriva l'occasione, per dare a questa serie un suo carattere che la distingua fortemente da altre poliziesche di successo, ad esempio quella di Maigret; e per puntellare con altro colore l'oggi debole giallo di Conan Doyle. Come nelle precedenti versioni si era messo il rosa, il comico, accanto a quel giallo, io avrei messo il nero. Inoltre avrei prosciugato il personaggio di Sherlock Holmes non solo degli svolazzi esteriori ma anche di molti interiori. Gli avrei tolto parte di quell'ingenua vanità da filodrammatico che tende a far colpo, che vuole stupire, gli avrei tolto naturalmente la siringa per iniezioni e di conseguenza quel decadentismo estetizzante, e quel suo ostentato disprezzo per le donne. Non dico — con questo — che ne ho fatto un dongiovanni: sarebbe stato uno snaturarlo. Ma non ho toccato il problema. Holmes è uno scapolo e vive solo. Ecco tutto. Mi basta aver eliminato la inutile (e sospetta) polemica contro le donne”.

Misoginia, droga, supponenza sparirono da questa trasposizione italiana, con pace per i severi censori della Rai dell’epoca.  

Come si è detto prima, la lavorazione si è svolta nell’estate del 1968 fra Napoli e Londra. Annota Il Radiocorriere Tv in un articolo dell’epoca: 

 

“Il regista Morandi, che un anno fa in Inghilterra diresse il film L'oro di Londra, ha scelto per ambientare le avventure di Sherlock Holmes due castelli della contea di Norfolk — a 170 miglia da Londra — con caratteristiche totalmente differenti: sinistro, desolante quello di Oxburg Hall per La valle della paura: e accogliente, ricco e vasto quello di Blickling Hall per ll mastino dei Baskerville. La troupe televisiva di Morandi ha trascorso più di un mese in Inghilterra, dove sono stati girati più di 10 mila metri di pellicola, equivalenti al materiale necessario per un paio di film. «Si è fatto in un mese», insinua Carlini, «un lavoro per cui la gente del cinema avrebbe impiegato sei mesi, perché a Cromer, dove risiedevamo, gli unici luoghi allegri, con dei fiori, erano i cimiteri! Si viveva ossessionati dalla luce e dalla solitudine: il sole calava alle 11 di sera e gli alberghi erano senza tapparelle! E già alle 8 di sera non c'era anima viva per le strade. Gli spaghetti poi ce li servivano con un sugo dolciastro di frutta». Il primo a portare a termine la sua fatica è stato Roby, il terribile mastino. «Un animale eccezionale», dice Morandi, «di un'intelligenza rara, che alla fine non ubbidiva più all'istruttore, ma a me. Scattava appena ordinavo “Motore, azione!”».

Poi il mastino e Sir Henry, lontano dal set, sono diventati amici. «Robv si è rivelato docile fino a quando non è stato preso a revolverate», interviene Bonagura, «c'era una scena in cui io, Watson, dovevo sparargli contro, ma senza colpirlo, perché questo onore è riservato alla mira infallibile di Sherlock Holmes. Ebbene Roby si è ribellato. Personalmente mi sentivo protetto dalla presenza, alle mie spalle, dell'istruttore; non altrettanto sicuro si è invece dimostrato il sergente Raynolds, cioè Sergio Reggi, il quale ha preferito darsi alla fuga!». 

La realizzazione de II mastino dei Baskerville è stata per la troupe una serie di corse al brivido. Lo stesso Paolo Carlini è rimasto vittima di una caduta da cavallo mentre al galoppo si recava all'appuntamento in un bosco con Beryl (Marina Malfatti). L'incidente ha successivamente indotto il regista a far ripetere la scena con l'innamorato su un più sicuro calessino. Ben più spaventevole per l'attore romagnolo, che non aveva voluto ricorrere alla controfigura, è stata la scena dell'aggressione da parte del terribile mastino: «Quando mi è saltato addosso, Roby ha spezzato con un morso il bastone che tenevo in mano per proteggermi il volto. Tempestivo è stato lo “stop” di Morandi! La scena non l'ho ripetuta: non mi sembrava proprio il caso di scherzare ulteriormente con Roby, che per l'occasione era stato aizzato». In questo giallo della serie di Sherlock Holmes, oltre a dar vita all'ultimo rampollo della dinastia dei Baskerville, Paolo Carlini impersona anche il vecchio Sir Charles, un uomo che ha fatto fortuna nelle Indie e che ha un grosso sfregio sul volto. Ed è Sir Charles la prima vittima del mastino che il pubblico vedrà sui teleschermi”.

 

Il ricordo di Nando Gazzolo

 


Lo Sherlock Holmes impersonato da Gazzolo, continuava l’articolo, “si differenzia da quello leggendario perché è stato modernizzato e spogliato di ogni frangia macchiettistica. Il «nuovo» Holmes ha in comune con quello tradizionale l'intelligenza superiore, lo snobismo e l'eccezionale freddezza: e naturalmente la pipa e il cappellino a doppia visiera. «E' un personaggio difficile da interpretare», spiega Gazzolo, «perché Sherlock Holmes tutti lo conoscono o credono di conoscerlo, e ognuno s'è fatto una sua idea del personaggio. Per entrare nei panni del celebre detective inglese ho dovuto leggere i gialli di Conan Doyle, che ignoravo». Il detective è celebre anche per la passione per gli esperimenti scientifici e il violino. «Sono stato costretto», prosegue Gazzolo, «a farmi prestare le mani da un violinista di professione perché io non so suonare una nota». Il personaggio ora «ricreato» da Gazzolo ha già incontrato i favori della «Sherlock Holmes Society» di Londra, che oggi si batte contro la deformazione macchiettistica della figura del leggendario investigatore, specie nei fumetti che si vendono in Inghilterra. Sfogliando queste pubblicazioni si ha la sensazione che con il passare del tempo Sherlock Holmes potrebbe diventare un James Bond con pipa e cappellino”.

Nel 2010, intervistato da Alessandra Calanchi, docente di lingue e letterature angloamericane all'Università di Urbino, l’attore ricordò: “l’esperienza è stata bellissima, ma più per aver scoperto Sherlock Holmes, perché in realtà io lo conoscevo di fama, ma non avevo letto neppure un libro, quindi per me la lettura è stata affascinante e bellissima; e poi capitare proprio in Inghilterra nei luoghi di Sherlock Holmes, bè, è stato emozionante, molto, molto emozionante. Sono stato molto felice di farlo, anche se io non sono affatto Sherlock Holmes caratterialmente, perché il motto di Sherlock Holmes è “osservare, concatenare e dedurre”: io non sono un bravo osservatore perché sono molto distratto. Quindi al contrario, non posso concatenare e nemmeno dedurre, perché se non osservo tutto il resto non funziona più̀: invece lui è un personaggio meraviglioso perché c’è questa intelligenza superiore alla media che lo rende così affascinante. Mi piace essere in certi momenti, o meglio, mi è piaciuto, essere come Sherlock Holmes, perché ha questa intelligenza superiore, che io non ho (ho un’intelligenza normale): un’intelligenza veramente superiore alla media, se no non riuscirebbe a risolvere certi casi. Lui li risolve perché ha un’intelligenza superiore alla media, e mi sentivo così importante anche io: «ah, come sono intelligente!»”.

Nel ’99, in una intervista telefonica, parlò invece delle riprese in Inghilterra: “Ricordo che girammo gli esterni nell'East England. Mi piacque moltissimo la campagna inglese. Ne rimasi innamorato. Credo che il clima sia il principale responsabile di quei prati verdi, di quelli scorci indimenticabili che ancora ricordo. Io vivo in campagna, amo la campagna, ma di quella inglese mi infatuai. Non ricordo precisamente il nome del luogo. La scelta delle zone dove girare può differire dalla originale in cui si sono svolti i fatti, e questo per varie ragioni. Bisogna guardare anche alla facilità di raggiungere i luoghi, alla vicinanza con posti "utili" per registrare. Si cercava un luogo dove ci fosse vicino un castello, una brughiera ed una pianura in modo da poter limitare gli spostamenti con la troupe. Ma ricordo che il castello dove girammo non andava bene. Un signore inglese mi fece notare che non era fedele alla storia. C'era la necessità di un fossato dove doveva sparire l'arma del delitto. Ma quel fossato non era adatto. Proprio un inglese che assisteva alle scene me lo fece notare. Ricordo invece la gentilezza e la cortesia degli abitanti del luogo. Se giravamo vicino ad una villetta, ad esempio, capitava spesso di essere invitati per una tazza di the. Ricordo anche che la stampa locale fu molto interessata al nostro lavoro. Fummo intervistati dalla BBC, se non erro, ed anche da alcuni giornali locali. Ricordo ancora il titolo di uno di questi «Giovane attore italiano interpreta SH». Allora ero giovane, beh, ero più giovane. Ma suscitammo un certo scalpore e nei giornali locali si dovrebbe poter trovare una traccia”.

 

Watson

 

“Un aspetto molto importante è costituito dai rapporti fra Holmes e il suo amico e collaboratore dottor Watson”, scrisse lo sceneggiatore Edoardo Anton in un articolo per Il Radiocorriere Tv. “Nelle versioni diciamo «comiche» delle Avventure di Sherlock Holmes era logico che Watson fosse la «spalla» sciocca da prendere in giro. Che questo atteggiamento sia divenuto un cliché è provato dalla famosa frase che Holmes dice spesso a Watson: «Elementare, Watson!». Chi non la conosce? Ebbene questa frase non è mai stata scritta da Conan Doyle. Non appare in alcun romanzo né nei racconti. È una espressione nata dalle versioni comiche altrui. Conan Doyle, al contrario, ha impostato il rapporto Watson-Holmes su di una franca amicizia reciproca e su reciproca stima. In più — è naturale — c'è in Watson grande ammirazione per il celebre amico, ma questi non sottovaluta né il buonsenso del suo collaboratore, né le sue generose qualità morali neppure la sua perspicacia anche se talvolta si diverte — lui, lo specialista — a fargli sotto gli occhi i suoi giochi di prestigio mentali. D'altronde Sherlock Holmes, se è un dilettante nell'esercizio dell'investigazione per ciò che riguarda il denaro (per quanto... di che altro vive?), si considera un professionista quale criminologo e non s'aspetta certo, su questo terreno specifico, che un medico possa stargli alla pari. Sarebbe quindi illogico che lo offendesse o lo prendesse in giro”.

Parlando di Bonagura e su come avesse costruito il personaggio di Watson, Gazzolo disse: “È stata un’esperienza molto bella, perché lui è riuscito a dare al personaggio un’intelligenza, quindi era un collaboratore di Sherlock Holmes, non era... invece tante volte lo si vede come un po’ passivo, uno che purtroppo non è intelligente e se non ci fosse Sherlock Holmes non avrebbe capito niente. Invece no, lui l’ha fatto intelligente: non come il suo grande amico, ma intelligente, comunque. E quindi il rapporto era più bello, perché era uno scambio di intelligenze: dove Sherlock Holmes ovviamente andava sempre oltre...”. 

Bonagura, intervistato anche lui telefonicamente nel ’99, parlò soprattutto delle location: “Mi ricordo che un posto dove sicuramente abbiamo girato è Cromer. Se lei guarda su una carta lo trova a meno di cento chilometri da Londra. Ci stemmo una settimana, credo, girando in un castello dove avevano affittato alcuni locali. E poi nei dintorni per gli esterni. Per altri esterni abbiamo girato, per esempio, sul lago di Nemi. Non saprei dirle con precisione in che posto. Però evidentemente, o la vegetazione od in riva al lago qualche cosa poteva richiamare, poteva essere così ingannevole ed equivoco tanto da potersi usare come se fosse Inghilterra. Mi ricordo che girammo in estate perché ricordo che soffrivamo il caldo con i costumi, con i cappotti”. 

Uno degli aspetti più interessanti di questo Sherlock Holmes, secondo me, è che gli interpreti principali erano due eccellenti attori e doppiatori: poiché la scuola all’epoca era il teatro, gli attori erano tutti dotati di una bella, carismatica o caratteristica voce. E su questo aspetto, segnaliamo due ulteriori contributi nel mondo di Holmes da parte di Bonagura: prestò la voce a Marty Feldman nel personaggio del Sergente Orville Stanley Sacker, specie di Watson minore nel film parodia di Gene Wilder Il fratello più furbo di Sherlock Holmes (The Adventure of Sherlock Holmes' Smarter Brother, 1975), e a Peter Cushing nel film tv La maschera della morte (1984), in una storia apocrifa di Sherlock Holmes. Gazzolo, invece, fu chiamato per prestare la voce all’attore inglese Lance Percival in Concerto per pistola solista (1970), “stracult” di Michele Lupo, nel quale interpretava un commissario di Scotland Yard: nel doppiaggio non a caso ripete spesso “elementare, elementare” e ha un tono alla Holmes…

 

Dove vederlo

 

La Fabbri Editori pubblicò una lunga collana di DVD dedicata agli sceneggiati di genere giallo prodotti dalla RAI, incluso ovviamente Sherlock Holmes, nel 2009. Nel 2013, è la stessa Rai ad aver pubblicato un cofanetto di due dischi, oggi ancora in catalogo. Ma più facile cliccare qui: https://www.raiplay.it/programmi/sherlockholmes-losceneggiato  

 

Fonti bibliografiche

 

Edoardo Anton, Il professore che batté Scotland Yard, Radiocorriere Tv, n. 31 del 28 luglio-3 agosto 1968.

Ernesto Baldo, Brividi fuori programma per girare Sherlock Holmes, Radiocorriere Tv, n. 41 del 6-12 ottobre 1968.

Gianluca Salvatori, Al telefono con Sherlock Holmes, The Strand Magazine, n. 3, dicembre 1999 (http://www.unostudioinholmes.org/telefono.htm).

 

mercoledì 27 settembre 2023

Sherlock Holmes nel cinema muto italiano


Non fatevi ingannare dal titolo di questo articolo: non esiste nessun Sherlock Holmes italiano nel cinema muto. Eppure, il personaggio nato dalla penna di Arthur Conan Doyle è considerato fra i più rappresentati nella storia del cinema. Chi scrive, è un appassionato che ha cominciato a leggere i primi romanzi in età prescolare, per diventare poi accanito spettatore delle numerosissime serie cinematografiche. Tutte le fonti concordano che il primo film dedicato all’investigatore privato risalga addirittura al 1903, intitolato Sherlock Holmes Baffled: in meno di un minuto, l’investigatore viene buggerato da un ladro che scompare e appare a suo piacimento. Quindi il primo film su Holmes fu una produzione non inglese e una aperta parodia del personaggio. In Italia l’infallibile Holmes sarebbe arrivato nel 1895 con una manciata di romanzi per la Casa Editrice Verri di Milano, per poi passare, nel 1899, al Corriere della Sera che pubblicherà, a puntate su La Domenica del Corriere, gran parte dei racconti di Holmes: il grande successo ottenuto presso i lettori italiani spingerà una serie di editori a pubblicare i romanzi e varie antologie in più edizioni. Nei primi anni Dieci del Novecento Holmes era quindi abbastanza famoso per essere imitato o trasportato nel pioneristico cinema italiano che proprio in quel periodo stava correndo verso una produzione ampia e persino esportabile all’estero. L’affermazione che il primo e unico (per il momento) Sherlock Holmes italiano è stato Nando Gazzolo per la serie di telefilm prodotti dalla Rai nel 1968, è corretta; ma in precedenza, nel periodo del muto, sono state diverse le parodie girate dai primi comici del cinema italiano. Gran parte di questi film, alcuni brevissimi, sono andati perduti, ma ne riportiamo qui titoli e dati necessari per l’approfondimento necessario (la fonte principale è I comici del muto italiano, a cura di Paolo Cherchi Usai e Livio Iacob, «Griffithiana», La Cineteca del Friuli, nn. 24-25, ottobre 1985). 

NB: in alcuni film il titolo storpia il nome di Sherlock Holmes in Sherlok, sicuramente un espediente per evitare noie per i diritti, o un plausibile e costante errore ortografico.

NB2: Nell'autorevole libro Sir Arthur Conan Doyle at the cinema (1996), di Scott Allen Nollen, viene riportato il film The Flea of the Baskervilles (1915) come produzione italiana, ma era in verità il tedesco Der Floh von Baskerville, prodotto dalla Luna Films.

NB3: il film muto più noto di Sherlock Holmes, interpretato da William Gillette nel 1916, nonostante alcune fonti lo indicano distribuito da noi, è in verita inedito in Italia. E' stato proiettato durante le Giornate del cinema muto di Pordenone nel 2015, in seguito al clamoroso ritrovamento di una copia francese, avvenuto l'anno precedente.


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Un rivale di Sherlock Holmes (1907). Prodotto dalla Ambrosio (Torino), 165 metri. Film perduto di cui si sa veramente pochissimo. Il film è però uscito negli Stati Uniti, dove ha ricevuto anche una recensione favorevole (“Numerose le scene emozionanti e gli scontri fisici. Un soggetto sensazionale di superbo effetto drammatico, senza caratteristiche discutibili”, The Moving Picture World, 2 maggio 1908).

 

Il piccolo poliziotto (1909), prodotto dalla Itala Film, è noto anche come Il piccolo Sherlock Holmes. È un film di genere drammatico dove è presente vagamente lo spirito investigativo di Holmes nel personaggio del figlio di un viaggiatore rapito da due briganti in cambio di un riscatto (la cifra riportata è di diecimila lire: sono quarantaduemila euro odierni!). Il giovane trova il covo dei briganti, li affronta uccidendoli con un fucile e libera così suo padre. 

 

Fricot emulo di Sherlok Holmes (1913), con Armando Pilotti (Fricot). Prodotto dalla Ambrosio (Torino), 205 metri. Il personaggio di “Fricot” fu inventato nel 1910 dall’attore Ernesto Vaser (Torino, 1876-1934), piccolo di statura, un po' corpulento, ma agile, per la casa di produzione piemontese Ambrosio. Nel febbraio del 1912 Vaser lasciava l’Ambrosio per l'Itala, dove avrebbe impersonato un altro analogo personaggio, Fringuelli, e, a quanto pare, venne sostituito nella serie di Fricot da Armando Pilotti e da Cesare Gravina. La comica è andata perduta.

 

Più forte che Sherlock Holmes (1913), regia di Giovanni Pastrone, con Emilio Vardannes (Totò Travetti), prodotto dalla Itala Film (Torino). Sono due episodi rispettivamente da 198 e 230 metri (il secondo ha un visto censura datato 1914): dal 1989 il Museo del cinema di Torino conserva una copia ritrovata al Nederlands Filmmuseum, ed è visionabile nel loro profilo Vimeo. “Conferma – ove ce ne fosse ancora bisogno – la grande abilità di Segundo De Chomón nell’utilizzo dei trucchi, qui profusi a piene mani e tutti finalizzati a dare alla divertente vicenda un ritmo cinematografico vivacissimo ed incalzante, una vera e propria elettrizzazione del racconto”. (Aldo Bernardini, Il cinema muto italiano, 1913, Bianco e Nero, Nuova Eri, 1994, pag. 132). Link: film.
Vardannes, il cui nome era in verità Emile in quanto parigino, aveva inventato il personaggio di Totò nel 1911 dopo essere stato assunto come attore dall’Itala Film; l’anno successivo passò alla Milano Films con un personaggio molto simile a Totò di nome Bonifacio. 

 

Krì Krì contro Sherlok Holmes (1915), con Raymond Frau nel ruolo di Krì-Krì. Prodotto dalla Cines, 125 metri.  La disfatta di Sherlok Holmes o Krì-Krì sconfigge Sherlok Holmes (1915), con Raymond Frau nel ruolo di Krì-Krì. Prodotto dalla Cines, 145 metri.  
L’attore Raymond Fran, in arte Ovaro, nato nel Senegal nel 1887 da padre italiano e madre francese, era diventato in Francia un clown/acrobata da circo, e si esibiva in un duo nei varietà e nei caffè-concerto, compiendo tournées anche in Italia. Notato e assunto dalla Cines nel 1912, con il personaggio di Kri Kri creò un personaggio di “viveur” elegante, segaligno e mattacchione, per certi versi ispirato al modello messo in auge in Francia da Max Linder. Nel ruolo di Kri Kri, Ovaro raggiunse comunque larga popolarità e risultati di buon rilievo, qualitativo e quantitativo, nel cinema italiano e internazionale, spesso lavorando assieme ad altre macchiette della Cines, come Checco, Lea e Cinessino. Nel 1915 ritornò in Francia, dove creò un altro personaggio di successo, Dandy.

 


Rodolfi emulo di Herlock Sholmes
 (1915), con Eleuterio Rodolfi. Prodotto dalla Ambrosio (Torino), 1050 metri. Film perduto.

Il bolognese Eleuterio Rodolfi (1876-1935), dopo una lunga attività teatrale, trovò la sua strada quando Arturo Ambrosio lo scritturò per il cinema, facendolo diventare subito popolare in una miriade di comiche e brevi commedie dove tratteggiava una lepida figurina di elegante e spesso sfortunato dongiovanni. Realizzatore oltre che attore, lavorò molto spesso in coppia con Gigetta Morano e con Emma Veda. Dal 1913 Rodolfi partecipò anche alla direzione artistica dello stabilimento Ambrosio, occupandosi soprattutto del settore comico e brillante. 

 

Camillo emulo di Sherlok Holmes (1921), con Camillo De Riso. Prodotto dalla Caesar-film (Roma), 1050 metri. Film perduto.

Camillo De Riso (1854-1924), aveva alle spalle una carriera teatrale quan-do, nell'ottobre del 1912, venne assunto all'Ambrosio di Torino. Qui formò con Gigetta Morano ed Eleuterio Rodolfi un trio comico di successo, ma fu solo quando passò alla Gloria, alla fine del 1913, che egli poté lanciare un personaggio tutto suo. Camillo, allegro buongustaio e impenitente libertino. Nella seconda metà degli anni Dieci fu anche regista di qualche opera di maggior impegno, come Spiritismo (1919), con Francesca Bertini.

 

Saetta più forte di Sherlock Holmes (1921), con Domenico Gambino (Saetta). Prodotto dalla Saetta-film (Torino), 1590 metri. Conosciuto anche come Saetta contro Sherlok Holmes.

Nel castello di Changeloup viene rapita la cagnetta della baronessa, un pechinese di nome Rirì. Accusata di scarsa sorveglianza, viene licenziata una cameriera, anch'ella di nome Rirì. La baronessa incarica due poliziotti privati, Sherlock e Holmes di ritrovare la preziosa bestiolina, ma i due non vengono a capo di nulla. Attratto dalla ricompensa di cinquemila lire, inter-viene Saetta, che dopo mirabolanti peripezie ritrova il cagnolino, ma chiede, oltre ai soldi, an-che la riassunzione dell'innocente cameriera. Intascato il premio di cui non sa che fare, capita in un istituto di trovatelli, gioca con loro e consegna i soldi al direttore dell'Istituto, perché li impieghi a favore dei piccoli. E ritorna alla sua solita vita di generoso vagabondo. (Aldo Bernardini, Il cinema muto italiano, 1921, Bianco e Nero, Nuova Eri, 1996, pag. 290).

Domenico Gambino, altro piemontese (1890-1968), aveva iniziato all’Itala Film nel 1910 come comparsa nella serie di Cretinetti (André Deed); passò all'Ambrosio Film nel 1916 come attore-regista e poi alla Pasquali Film. Due anni dopo fondò una propria casa cinematografica, la Delta Film, e nel 1920 fu interprete di un nuovo personaggio dal nome Saetta, trasformando la stessa Delta in Saetta Film. In seguito, Gambino rimarrà dietro la cinepresa anche nel cinema sonoro: nel 1949, ad esempio, girerà Torna a Napoli, che segnò il debutto cinematografico di Nino Manfredi.





sabato 16 settembre 2023

Laurel & Hardy: Year One - una recensione


Lo scorso 15 agosto è uscito un cofanetto blu-ray molto atteso dal titolo “Laurel & Hardy: Year One”, inteso come primo volume e annata iniziale della coppia nel lontano 1927; in verità, contiene anche il primo film girato, The Lucky Dog, girato nel 1921, e il primo in cui appaiono come attori negli Studi Roach, 45 Minutes from Hollywood, del 1926, per un totale di quindici silents.

Oserei definire questa uscita epocale: nel 2020, in pieno lockdown, la Blackhawk Films ha intrapreso il progetto fondamentale di recuperare i materiali migliori nel mondo e restaurare, ma dovrei dire anche ricostruire, i film muti di Stanlio e Ollio. Il periodo dei “silents” comprende 34 titoli dal 1921 al 1929, anzi 33 se escludiamo Hats Off, l’unico interamente perduto della loro filmografia. Essendo film vecchi di 96 anni (e nel caso del primo film, 102!), e i loro film bistrattati da altrettanto, non è stato per nulla facile come lavoro. 

 

Ora, spiegare nel dettaglio cosa sia successo a questi film non è facile, e potrei perdervi tutti durante la lettura di date, percentuali e nomi sconosciuti, ma è proprio in queste ricostruzioni storiche che si spiega la verità. Partiamo da un dato di base: l’80% dei film muti (inteso come periodo dal 1895 al 1929), sono andati perduti. Sono migliaia di pellicole che non hanno avuto nessuna conservazione, sia per interesse culturale o commerciale, che si sono rovinate per sempre: e vale a dire esplose (la vecchia pellicola era fatta di nitrato d'argento, altamente infiammabile) e quindi bruciate in alcuni grandi incendi che hanno colpito grandi magazzini degli Studi di Hollywood, o rovinate (acetosi, muffa). Negativi e pellicole sono un materiale molto fragile, e la cultura del restauro prese piede molto tardi, troppo tardi per salvare tanti film di quel periodo. In un certo senso con Stanlio e Ollio siamo stati fortunati: intero si è perso “solo” un titolo, Hats Off sopra citato, mentre The Battle of the Century, del 1927, ricostruito quasi intero solo – pensate – nel 2015, ha smarrito forse per sempre la fine del primo rullo; manca metà di Now I’ll Tell One, altro film del 1927 con Charley Chase e i due comici in ruoli secondari; incompleto anche il lungometraggio The Rogue Song, nel quale la coppia si prestava ad un ruolo di supporto, oggi sopravvissuto in un trailer, due sequenze e un pezzo di dieci minuti; una buona parte delle versioni girate in lingua straniera dalla coppia nel 1930-31, incluso in italiano Muraglie (mentre Ladroni è stato ritrovato l’anno scorso, ma senza sonoro), sono sepolte chissà dove. Ma a parte tutto questo, la filmografia della coppia è viva e vegeta, e gran parte dei negativi è conservata in luogo adatto.

 

Ma per arrivare a tutto questo, anche Indiana Jones si sarebbe sparato un colpo in testa. I muti di Laurel e Hardy girati nel 1926-27, erano prodotti da Hal Roach per la Pathé, mentre gli altri dalla MGM: il passaggio fra le major coincise con il crescente successo della coppia dando ai due gruppi di film un percorso differente. I film pre-coppia furono distribuiti “contro” quelli in coppia, e finirono distribuiti per lanciare Stan e Oliver nonostante non fossero un duo ufficiale: avuto il successo iniziale, sparirono a favore di quelli in coppia, e soprattutto sonori, come è testimoniato in Europa e in Italia. I muti così finirono in un oblio a cominciare dal 1931-32, con le ultime compilation che li conteneva. 

 

I “parlati” andarono spediti fino al 1940, quando Laurel e Hardy avevano concluso l’ultimo accordo con Hal Roach per andare verso altre strade. Il loro catalogo conteneva 90 film, per non parlare delle altre serie di Roach, come quella di Charley Chase, dell’Our Gang, ecc. Nel frattempo le copie dei negativi di questi film non se la passavano bene. All’epoca Hal Roach - e questa non vuole essere una critica nei suoi confronti - non ha mai pensato alla conservazione dei suoi vecchi film, perché era totalmente assorbito dalla creazione di nuovi progetti. Ma parecchi erano dello stesso suo ragionamento, perché negli anni ’40 non c’era una grossa richiesti di film vecchi e per giunta muti, così gran parte del catalogo era sparso in alcuni depositi di proprietà della MGM, a disposizione per il noleggio in formato 16mm per le sale cinematografiche o fare la muffa (uno di questi depositi era il Mercury Laboratory a New York, dove il negativo 35 mm di Hats Off fu inviato dalla M-G-M nel 1945 prima di diventare polvere, o almeno di prendere polvere e sparire chissà dove). Poi successe qualcosa. Roach, vedendo che anche i film di basso livello che Stan e Oliver giravano per la Fox e la MGM riscuotevano comunque successo nelle sale (pensate quanto amore del pubblico: brutto o bello che sia, andavano bene lo stesso, pur di vederli al cinema), siglò un accordo per la riedizione di alcuni loro vecchi titoli. Nel 1943, la Film Classics stipulò un contratto con Roach per la riedizione di gran parte della produzione dello studio dopo il 1928. Alcuni film, come Pack Up Your Troubles, Pardon Us, ebbero successo, ma il lavoro di duplicazione da parte della Film Classics fece dei danni veri ai materiali originali di Roach, anziché farli da loro duplicati, per negligenza da parte di entrambi le parti. Concluso l’accordo nel 1951, la Astor Pictures di Robert Savini fu uno dei numerosi distributori che acquistarono i diritti per la riedizione nelle sale cinematografiche. Preoccupati solo di un ritorno al botteghino a breve termine, come molti altri, l'abuso dei negativi in laboratorio continuò.  Poi dai primissimi anni Cinquanta arrivò la televisione, dove le comiche mute ebbero in generale un breve ritorno: definito materiale obsoleto ma facile da sfruttare, i film muti finirono in copie tremende in programmi come Comedy Capers e Mischief Makers – poi arrivati anche in Italia, qualcuno ricorda ancora oggi lo storico programma Oggi le comiche? Tagliando e cucendo, a favore della pubblicità, resero questi film una serie di frammenti abominevoli.

Che altro? L’home video, e un importante rilancio culturale che ridiede a questi film un trattamento migliore. Il primo a darlo fu il cineasta Robert Youngson, che dal 1957 al 1970 realizzò meravigliose compilation di comiche mute, fra due espressamente dedicate a Stanlio e Ollio. 

Come scrive Richard Bann in un dossier sulla preservazione dei loro film: “selezionando i nitrati in decomposizione che voleva utilizzare su pellicola di sicurezza, le preservò. Youngson copiò, tuttavia, solo ciò che desiderava estrarre per il film che stava girando. Salvò quindi solo il filmato di Battle Of The Century che incluse nel suo film antologico. Aveva la possibilità di conservare l'intero film o fare una fine grain, cioè una copia 35mm ripulita dalla grana, ma il suo licenziatario, gli Hal Roach Studios, non fece nulla. Non molto tempo dopo che Youngson ebbe estratto ciò che gli serviva dalla bobina n.2, che era un riassunto del filmato del combattimento con le torte, il resto della bobina si decompose mentre era sotto la custodia di Bonded Storage a New York, fu scartato e poi buttato via” (fu ritrovato al Museum of Modern Art parecchi decenni dopo). 

Ma visto il successo ottenuto da questi film che erano invisibili da molti anni, e l’interesse che aveva suscitato la prima biografia della coppia pubblicata da John McCabe nel ’61, i dirigenti Roach siglarono degli accordi per il mercato casalingo in forte crescita nei formati 8mm e 16mm. E qui entra in gioco la Blackhawk Films. 

 

“Negli anni '70, quando lavoravo per la principale licenziataria, la Blackhawk Films, Inc. di Davenport, Iowa, - scrive ancora Richard Bann - venni a sapere che la società rimasterizzava il materiale di base di Roach in 35mm, ma lo prendeva in prestito solo per un singolo passaggio, al fine di creare un negativo duplicato ridotto o una copia con poca grana in 16mm. Almeno Blackhawk ha fatto un tentativo in buona fede di presentare i film «sostanzialmente come sono stati distribuiti per la prima volta nelle sale cinematografiche», come recitavano le introduzioni dei muti sullo schermo. Inoltre, la Blackhawk ha investito nei propri elementi di stampa e il materiale originale non ne ha risentito”. I bollettini dei loro cataloghi erano a disposizione soprattutto nelle biblioteche, per il noleggio o acquisto dei titoli, ed erano una cuccagna per i collezionisti. Molti film erano in catalogo, ma non Hats Off e The Battle of the Century. Perché? Risponde Richard Bann: “Prima che Blackhawk Films fosse realmente attiva nel mercato casalingo e nella vendita nelle biblioteche negli anni '60 (sebbene il suo primo accordo con Roach risalga al 1952), i film muti della M-G-M non furono mai concessi in licenza in formati di pellicola inferiori allo standard per la distribuzione non prevista per le sale, e quindi non furono mai stampati per il mercato del 16 mm. Nessuna copia completa e d'epoca in 16 mm di entrambi i titoli verrà mai alla luce perché non sono mai stati stampati in 16 mm”. Quindi prima che ve lo chiediate, questi due titoli possono essere ritrovati solo nel formato 35mm. E buonanotte.

 

Quando gli Hal Roach Studios uscirono dalla bancarotta, nel 1971 il patrimonio netto fu diviso tra l'emisfero orientale e quello occidentale. All’estero, il titolare del copyright è sempre stato CCA. Hans Andresen è stato il cofondatore, insieme al più noto proprietario di maggioranza, il Dr. Leo Kirch, di quella che si è evoluta in KirchMedia GmbH & Co. e di molte altre società private europee di produzione, distribuzione e commercio di diritti, principalmente in Germania. Chiunque abbia comprato almeno una volta un Dvd europeo di L&H ha letto i nomi Beta Taurus, Beta Film o Kinowelt: dietro c’era sempre Kirch, proprietario dal 1983 del pacchetto della MGM/United Artists e ovviamente di Hal Roach. Dagli anni Ottanta fino al fallimento della Kirchgrouppe nel 2002, Richard Bann ha potuto supervisionare la spesa di milioni di dollari per salvare, restaurare, rivitalizzare, convertire e conservare le pellicole in nitrato del catalogo di Hal Roach. Si tratta degli stessi elementi in nitrato consolidati dai caveau di Culver City e dai depositi della East Coast che furono depositati per la prima volta presso la Biblioteca del Congresso nel 1969, un paio d'anni dopo che gli Hal Roach Studios erano usciti dalla bancarotta. 

Non sempre i titoli muti furono restaurati come si deve, a parte eccezioni di copie ben messe come quelle di Big Business o Double Whoopee, perché i negativi, nel frattempo, erano in gran parte rovinati o, peggio, da buttar via. Quando nella metà degli anni Novanta si lavorò ad un primo vero restauro dei silents, si dichiarò che la prima fonte utilizzata era l’originale negativo in 35mm, ma alcuni titoli, proprio quelli del 1926-27, erano sopravvissuti grazie alle copie casalinghe in Super 8 o in 16mm. Usciti nel 1999-2000 nella serie chiamata “Lost Films of Laurel and Hardy”, questi dvd restituirono, nel limite delle tecnologie di venticinque anni fa, le copie migliori in circolazione. 

 

Ma la ricerca di materiali migliori era iniziata parecchi anni prima. David Shepard e il fondatore della Blackhawk Kent Eastin avevano cominciato a lavorare al restauro e alla conservazione del catalogo alla fine degli anni Sessanta. La Blackhawk intanto fu venduta nel 1975 alla Lee Enterprises, ma la nuova gestione fallì presto, nel ’79, anche a fronte del nuovo mercato home-video delle VHS e dei Laserdisc. Nell’85 fu acquistata dalla Republic Pictures, ma durò due anni, e passò in nuove mani alla Critics Choice, di proprietà di Hugh Hefner (sì, quello di Playboy). Shepard intanto aveva fondato la “Film Preservation Associates” assieme ad altri ex colleghi della Blackhawk, fra cui Richard Bann, e nel 1989 acquisì la cineteca, con Hefner maggiore azionista. Nel 1990, il francese Serge Bromberg conobbe, durante un viaggio d’affari a New York, David Shepard: due teste, unica idea, quella di preservare il catalogo (oltre 5000 titoli) per le future generazioni. A Shepard, morto nel 2017, è dedicato il cofanetto dedicato a Laurel e Hardy.

E siamo così arrivati alla mia recensione. Se siete sopravvissuti alla lettura fino a questo momento, ve ne sono grato, perché era fondamentale fare questa premessa ad una storia poco raccontata. Bromberg e il suo staff sta attualmente lavorando alla restante produzione muta del ’28-’29, e ogni nostro supporto servirà alla realizzazione dei prossimi due cofanetti in blu-ray. A proposito, potete comprarlo qui, ed è multi-regione.

 

Alla luce di tutto questo, ogni cosa che sappiamo e che abbiamo scritto sui film muti di Laurel e Hardy possiamo ritenerla roba vecchia. Sembra davvero di vederli per la prima volta, perché il restauro ci riporta a come erano effettivamente queste copie quando uscirono nelle sale, e ci fa apprezzare quello che ci era sfuggito dalle performance degli attori. Questa sensazione è più forte in questi film del periodo iniziale, perché erano quelli dalle condizioni peggiori. E ho rivisto questi film dandogli un giudizio diverso, in alcuni casi, note che condivido con voi. Nel documentario con Bromberg, interessante nota su come i film si sono rovinati in neanche cinque anni dal recupero di Robert Youngson (con un esempio eclatante di Putting Pants on Philip), ma avrei voluto qualche dettaglio in più sul processo di restauro. Belle le musiche. Al restauro effettuato assieme a Éric Lange, ogni corto ha il prezioso commento audio di Randy Skretvedt. Per dare un'idea del risultato, ho messo a confronto un fotogramma attuale con i materiali usati nel 2000 per la serie "Lost films" in Dvd, basta cliccare per ingrandire l'immagine.

 



The Lucky Dog è completo nei limiti del possibile, immagine un po’ sporca ma la più nitida che io abbia mai visto di questo film. Diversi i fotogrammi recuperati. 

L’incontro fra Stan e Oliver in questo film è, credo, una delle casualità più straordinarie mai successe nella storia di Hollywood. Il produttore cercò di lanciare Stan come comico girando una comica pilota, così chiamò un suo regista amico che si portò con sé un attore amico bravo nelle parti di cattivo, di nome Oliver Hardy. 




45 minutes from Hollywood, circolava già in una copia decente pubblicata da Mk2 una quindicina di anni fa, e nel nuovo scan ha guadagnato maggiore nitidezza. Come in quella copia, anche in questa la sequenza con Stan alterna scarsa e ottima qualità. Peccato perché in altre fonti la sequenza si vedeva molto bene. Non proprio un film da buttare, e Hardy è molto buffo. Credo di aver notato qualcosina in più nelle sequenze iniziali a Hollywood.


Duck Soup, finalmente intero, si fa apprezzare maggiormente come comica, la qualità è davvero ottima. Rivedendolo con la famosa sequenza censurata (assente dalle copie americane) devo dire che si incastra male nella storia, però dal punto di vista del restauro non possiamo lamentarci.



Slipping Wives, non mi sono mai spiegato perché Hardy fosse così violento con Stan; comunque, copia spettacolare, calcolando che in precedenza le copie erano così mal messe che non riuscivamo a vedere bene i volti degli attori (una copia Rai, era imbarazzante). Come film, una mezza cretinata. Non ricordavo che la gag finale del poliziotto colpito al sedere dal fucile è la stessa che si vede in Noi siamo le colonne.

 


Love ‘Em and Weep, circolava già in una copia splendida nei dvd tedeschi, e qui non solo si conferma tale, ma vengono recuperate le scene multi-tinte per gli esterni ed interni. Una grande comica, ma non ricordavo che Stan e Babe non condividessero neanche una inquadratura, tranne il totale finale.


Why Girls Love Sailors, è un titolo che è passato ad essere un film perduto a film che si vede uno specchio. Forse qualcosa si è perso per sempre, ma poco male, il restauro riporta i dettagli del volto di Oliver Hardy e i suoi comicissimi sguardi. Non c’entra nulla, ma a parte qualche gag, questo film è davvero mediocre.



With Love and Hisses, un restauro pauroso. Ho impressione che nella scena del bagno fossero davvero tutti nudi come vermi, ma guardando bene gli attori indossano un costume da bagno. Non c’è molta storia, ma tanto slapstick, cadute, ecc., e uno Stan parecchio effeminato. 



 

Sailor’s Beware, finalmente si valorizza Anita Garvin come attrice comica, e Stan e Babe iniziano a interagire con maggior frequenza. La comicità è piuttosto rozza – Stan che spinge il nano in carrozzina sulle scale oggi porterebbe la gente in piazza per protesta – ma c’è un ritmo veloce. Copia ottima, in certi punti la nitidezza sorprende visto che questo film girava sempre in copie rovinate. Alcuni intertitoli sono stati messi finalmente nei punti giusti.



Do Detective Think?, anche se non ancora coppia fissa, Stan e Babe sembrano, come era accaduto con Duck Soup, essere nati per recitare insieme. Non credo ci sia stata molta casualità negli abiti, e rivedendo Sailors dopo questo, chiunque si sarebbe accorto che Stan e Babe funzionavano benissimo. 

La copia è splendida. Era uno dei muti che si vedeva peggio. Ed è un vero spasso. Non mi ero mai accorto che quando i due prendono i sigari e strappano la punta, Ollie la sputa, Stan la ingoia. Come ha scritto Randy Skretvedt su Facebook: “L'unica omissione di cui sono a conoscenza è una *molto* breve inquadratura di Viola Richard che cammina verso la porta d'ingresso, che esisteva solo in una fonte talmente scadente che includerla sarebbe stato stridente e avrebbe portato lo spettatore fuori dalla storia e quindi consapevole della qualità della stampa. La durata è di circa due secondi, quindi non si tratta di una perdita grave”.




 

Flying Elephants, se la memoria non mi inganna, le copie sopravvissute erano 16mm. Il quadro ora è così completo da farmi notare il tizio della troupe che tira i pesci alla destra di Stan mentre lui pesca dentro l’acqua. Copia ottima.


 

Sugars Daddies, copia nitida quanto graffiata, perché come il precedente film è stata una operazione “Frankenstein” di copie per renderlo intero. Ad un certo punto la combinazione tripla “Fin-Stan-Babe” deve aver convinto Roach a farne un vero team, ma mescolando situazioni già viste in Love ‘em and weep e Slipping Wives la noia prende il sopravvento, poi dalla fuga fino all’arrivo al Luna Park, il film prende la piega giusta a “due”; e in questo caso allo Studio si sono detti, facciamogli fare coppia di nuovo, e vediamo come risponde il pubblico. 



The Second Hundred Years, è tornato finalmente in “vita” con sequenze recuperate e mai viste prima, soprattutto quelle in apertura e quelle in “tinta” blu con la gag del poliziotto che cade di faccia sulla vernice. Il film non è così esilarante come si ricordi, ma la prima parte vale il prezzo del biglietto.




Call of the Cuckoo, qualità eccellente. 
Max Davidson come comico protagonista non valeva granché. Pure se vedere insieme Laurel e Hardy con Charley Chase, affiancati da james Finlayson e Charlie Hall, fa sempre piacere, le loro scene sono fuorvianti.


Putting Pants on Philip
, meravigliosamente restaurato, è a mio parere uno dei più divertenti del loro primo periodo. L’anello mancante fra questo e i due precedenti è Hats Off: ormai sono un duo, e la cosa viene ufficializzata con questo film, anche se il debutto vero è accaduto con The Second Hundred years e la MGM pubblicizzò questo e Hats Off con grandi sforzi. 


The Battle of the Century, il restauro lo conosciamo già, ma questo migliora rispetto a quello visto nel precedente cofanetto blu-ray The Definitive restoration. Troveremo mai la fine del primo rullo? Rimane un film geniale.

 

Conclusione, il periodo 1926-27 era lo zoccolo duro della conservazione dei loro film. Hanno fatto davvero il possibile, e i graffi visti i 96 anni di età di questi film possiamo anche sopportarli. Ed è incredibile i passi avanti fatti dalle tecnologie di restauro dal 2000, anno dei “lost films”, ad oggi. 


Ringrazio per la collaborazione Valerio Greco, Benedetto Gemma, Stefano Cacciagrano.